Pubblichiamo l'intervento di Susi Brescia all'incontro pubblico del Circolo SEL - Fasano, Il Corpo delle Donne del 1 Luglio 2010.
La prima cosa che mi sono chiesta quando Bruno Marchi mi ha proposto di intervenire questa sera per parlare di Palmina Martinelli, è stata come fare per parlare di Palmina Martinelli con delicatezza, senza violare la sua intimità e la sua memoria o meglio ancora senza partecipare alla perpetua speculazione del suo nome. Potevo cercare di raccogliere tutte le informazioni disponibili, preparami in maniera adeguata come si fa quando si partecipa a un incontro di questo genere, prepararmi come per un compito, un esame.
Sarebbe stato un modo per continuare il racconto della vita e della morte di Palmina attraverso il filtro dei media, avrei potuto approfondire la mia conoscenza del processo, del resto io non ho conosciuto Palmina e all’epoca avevo 15 anni e proprio perché avevo 15 anni fu facile per me mettermi nei suoi panni e respingere al tempo stesso quell’orrore così vicino e così lontano.
Ho pensato che la maniera giusta per parlarne fosse farlo sul filo della mia memoria come in un racconto che potevo fare di questa vicenda a mio figlio, che ha 21 anni e che probabilmente di Palmina non ha mai sentito parlare e qui ho avuto la prima sorpresa; non avevo mai parlato di Palmina a mio figlio, si tende sempre a chiudere fuori dalla porta di casa le brutture, almeno quando si può o finché si può, in un continuo gioco di inclusione di esclusione di ciò che è giusto e di ciò che è ingiusto escludere a nostro personale giudizio.
Della vicenda di Palmina nella mia famiglia non c’era memoria e volendo recuperare , che parole avrei dovuto trovare per parlare di Palmina? Palmina era una ragazza di 14 anni a cui non è stato consentito di vivere la vita che voleva, anzi no, era una ragazza di 14 anni a cui non è stato consentito vivere.
A questo punto probabilmente ci si aspetta da me la prima rivendicazione di genere, che io vi risparmierò perché è talmente evidente che se Palmina non fosse stata una donna le sarebbe stata risparmiata la vita, che non dirò una cosa così ovvia.
Provo a tornare al racconto; a Palmina fu impedito di andare avanti con la sua vita, con l’alcol e un fiammifero. Per tanto tempo io come tanti, ne sono certa, ho provato a pensare a cosa deve aver provato. Paura, dolore, disperazione, solitudine. Pensavo a lei che cercava di aprire il rubinetto e l’acqua non c’era, non ho conoscenze mediche, ma per quel poco che so, non credo che l’acqua avrebbe potuto aiutarla, anzi. Si tratta di un gesto istintivo. Penso a cosa deve aver provato però quando anche il rubinetto non rispondeva alla sua richiesta di aiuto. Sappiamo tutti che la sua morte è avvenuta tra le più atroci sofferenze, ma la sofferenza che deve averle procurato quella solutidine senza rimedio, è difficile pure da immaginare. Aveva 14 anni, oggi diremmo un’adolescente, trenta anni fa l’adolescenza era appena stata inventata, prima di allora si era bambine e poi donne. Pensate, la parola adolescente non si declina, è uguale al maschile e al femminile, a Palmina infatti non è stato concesso di essere un’adolescente.
Sottomessa a un codice tribale per cui una donna non può scegliere. Io ricordo, con la capacità di elaborazione che potevo avere all’epoca, il rifiuto della città che si vide rappresentata come la culla del degrado dai media, ma i media sono quello che sono, potremmo fare lunghi, inutili, discorsi; il problema non poteva essere come veniva rappresentata la città, ma caso mai, non potendo fare più nulla per Palmina, cosa poteva imparare da quella vicenda la città. Ad esempio che la città non era la culla del degrado ma era anche quel degrado e procedere per sintesi, non per rimozione. Ecco questo è sempre mancato, la capacità di comprendere il contesto, di guardare da lontano, è sempre prevalsa la voglia di tirarsi fuori e di dire; no, noi non siamo quello. Noi non eravamo quel mondo in cui Palmina non aveva scelta, io insisto, non lo eravamo ma eravamo anche quello e la rappresentazione di quel fatto di cronaca diventò più forte più importante della vicenda stessa.
Pensiamo all’espressione che tutti che tutti conosciamo, che tutti abbiamo sentito dire, anche per scherzo: “J t’appicc”, io ti do fuoco, è una espressione tutta fasanese, abusata al punto che nessuno forse fa caso al suo significato, pensiamo a tutte le espressioni di uso comune che vengono utilizzate alla semantica della violenza. Pensiamo a quanto siamo europei, ma anche trogloditi. Intendiamoci , le espressioni idiomatiche, il linguaggio che caratterizza un luogo, sono una ricchezza e lo caratterizza antropologicamente, appunto; “ij t’appicc” racchiude tutto un mondo e se sei una ragazza, sola, piccola, di cui non importa a nessuno, sono autorizzato a farlo, chi poteva impedirlo? Palmina?
Io il processo l’ho seguito di rimando, ero troppo giovane e non avrei saputo neppure come fare, ma avevo un amico, maschio ovviamente, che lo fece, era più grande di me, studente di giurisprudenza, a lui chiedevo, chiesi, che idea si fosse fatto della vicenda, come faccio sempre quando sono interessata a un fatto, le verità processuali spesso sono diverse dalla verità dei fatti per mille ragioni spesso complicatissime che non è neppure il caso di considerare. La sua opinione era che i due imputati erano stati assolti perché in effetti esisteva il ragionevole dubbio che i loro alibi quantomeno fossero attendibili, nessuno, mi pare, ha mai creduto alla tesi del suicidio. Ovviamente a me la cosa sorprese, perché per me, come per quasi tutti i colpevoli erano certi, come avrebbe potuto Palmina dire due nomi che non erano quelli dei colpevoli? Io naturalmente non lo e può essere benissimo che i nomi che ha fatto Palmina fossero quelli dei colpevoli, ma non mi sembra pazzesco pensare che lei, probabilmente, sperando di sopravvivere, avesse paura delle ritorsioni che dire la verità le avrebbe causato, era una creatura sola e disperata e sapeva solo lei quanto, le mie sono informazioni di seconda mano che non hanno nessuna attendibilità, ma io non mi stupirei se la verità non fosse venuta fuori perché a nessuno davvero importava di Palmina, alle parti del processo, entrambe, importava che prevalesse la propria tesi, alla città di tirarsi fuori, alla politica di farne una bandiera dell’oppressione della donne. La verità è che di Palmina non è mai importato a nessuno, né da viva né da morta.
Cosa si può fare per restituire qualcosa a Palmina? Federica Sciarelli, nell’intento comprensibile, condivisibile di restituirle un po’ di giustizia, quando parla di lei specifica che era vergine. Ma il suo omicidio sarebbe stato meno orribile? La sua morte varrebbe meno valore? E chi decide il valore di una vergine? A Fasano non esiste nulla che porta il suo nome, eppure si sprecano associazioni, premi, concorsi, vie degli astronauti, delle stelle polari e degli eroi di tutti i cieli e i mari e le terre. Perché non dedicare una strada a Palmina, anzi, un giardino pubblico, con una targa che ne conservi la memoria? E’ un modo per dire che non ci siamo dimenticati e non ci stiamo.
Lo so che è poca cosa, ma ci sono segni anche piccoli, che classificano una comunità, la identificano, la rappresentano per quello che è, per la sua storia e per quello che vuole diventare, un luogo che non considera fisiologico una fatto di cronaca così efferata; non è stato l’unico. Chi siamo, chi vogliamo essere? Impariamo a definirci e visto che non ci piace come siamo rappresentati dai media, dai luoghi comuni sul sud, impariamo a rappresentarci noi, a seminare segni, che raccontino da dove veniamo e dove vogliamo andare. Mi sono anche chiesta, cosa scriverei su una targa commemorativa?
La data di nascita e di morte e poi potrei scrivere vittima della violenza sulle donne sì, ma non solo, dell’ignoranza dell’indifferenza anche del narcisismo, del conformismo della sua città che non vuole vedersi mal rappresentata. Vedete, la faccenda della violenza sulle donne è una molto spinosa, spesso è usata come uno slogan, è un modo di ridurre a una categoria facile da comprendere, basta non essere uomini che picchiano le donne e ci si sente nella parte buona dell’universo. Esiste invece una relazione tra povertà, ignoranza, conformismo e violenza. Con questo non voglio dire che gli abusi avvengono solo nelle famiglie svantaggiate, affatto e lo sappiamo benissimo, quello che manca è una cultura dell’essere insieme, del prendersi cura insieme, dei bambini perché non diventino uomini violenti e prevaricatori, delle bambini perché abbiano le loro chances. Con questo non voglio dire che non esiste una questione femminile, esiste eccome, voglio dire che se il movimento femminista è del tutto scomparso dalla scena, se quelle che per la mia generazione erano conquiste acquisite salvo rendersi conto che la maggior parte della società andava da tutt’altra parte, è perché qualcosa, per forza, non ha funzionato.
Ad esempio non abbiamo capito che le pari opportunità sono una questione di democrazia e di meritocrazia, abbiamo lasciato che ci dipingessero come una riserva indiana da salvaguardare e siamo state incapaci di fare squadra e di sostenerci, più inclini alla competizione che alla comprensione, sempre bisognose dell’approvazione di uno sguardo maschile, di un parere maschile. Abbiamo consentito che l’atteggiamento nei nostri riguardi fosse sempre di condiscendenza, abbiamo accettato che l’atteggiamento fosse sempre il “va bene ragazzina, togliti di mezzo, lasciami lavorare”, il lavoro poteva essere una concessione per una donna di famiglia benestante o una necessità, mai una libera scelta, perché i doveri delle donne sono altri, appunto: ragazzina togliti di mezzo, fammi lavorare. Gli uomini saranno pure in crisi, ma non ce la daranno mai quella fetta di potere, perché non ce lo prendiamo? Eppure noi lo sappiamo che siamo brave. Come dice Lorella Zanardo, ma di che cosa abbiamo paura?
Le paure sono sempre le stesse, come i bisogni: protezione e riconoscimento, allora; io sono grande abbastanza da sapere che la protezione dal dolore, dalle intemperie della vita, se ci credi, te la può dare solo dio; incominciamo a sgombrare il campo da questa illusione, facciamolo con le nostre figlie, aiutiamole a crescere sapendo che non devono appoggiarsi, dipendere. Certo, sono discorsi, nella realtà dei fatti nel mezzogiorno e a Fasano le donne sono sempre più povere e con livelli di disoccupazione altissima, anche a noi , qui, sarà data l’importanza che si deve alla riserva indiana e poi, “va bene bambine, ora lasciateci lavorare”. Allora, cosa dobbiamo fare, rinunciare? Io sono tra coloro che credeva di poter fare a meno di esprimersi in quanto donna, anzi l’ho rifiutato per tanto tempo, sono una persona mi dicevo, ho un valore come persona, cosa c’entra se sono donna o uomo? E’ stata una grande ingenuità, trenta anni dopo la morte di Palmina siamo all’anno zero, riconosciamo di essere indietro, di non trattare le persone indipendentemente dal genere e poi magari, ripartiamo. Riconosciamo di non essere abbastanza europei, riconosciamo le distanze abissali con il nord europa, mettiamo in relazione la qualità della vita di queste nazioni che ovviamente avranno i loro problemi ma all’interno dei quali non conta non conta quanto sei giovani e carina per partecipare a una missione all’estero, perché la questione non è che se la Gagliardi partecipa al G20, lei ha una opportunità e Maria Brambilla no, il problema è che alla Gagliardi non sarà mai concesso un ruolo diverso da quello che le è stato concesso, l’accompagnatrice. Non è un problema di invidia, come spesso gli uomini ci rimproverano quando tiriamo fuori questi argomenti, è un problema di sostanza.
Tornando a Palmina, al processo di rimozione che la sua vicenda ha tentato di operare la sua città, io insisterei sul carattere e sull’atteggiamento tipico dei piccoli centri, non ne voglio fare una questione di Fasano, un atteggiamento di chiusura di conformismo, di narcisismo; cominciamo a lavare in piazza i panni sporchi, rompiamo la rete di connivenze che proteggono i violenti, violiamo il codice della tribù, sappiamo tutti che ci sono episodi di violenza nelle migliori famiglie, di sopraffazione, e che le vittime delle sopraffazione sono sempre i più deboli, guardate non si tratta di sputtanare, ma di rompere uno schema, di smetterla di fare le brave bambine, tanto non ci premia nessuno, pretendiamo di essere cittadine prima che figlie e madri e mogli, Palmina era sola, non lasciamoci sole. Riprendiamoci la terra, la vita e l’abbondanza, per citare un poeta.
Susi Brscia - Scrittrice